“Giornata  delle Forze Armate e dell’Unità Nazionale”. Continua ad essere chiamato  così il 4 novembre, cent’anni dopo la fine del primo terribile  conflitto mondiale del secolo breve. Celebrata dai cappellani militari  nelle piazze di tutta Italia, caserme e unità navali aperte alla visita  di civili, giovani e studenti, donne e uomini armati nel nome della  difesa del suolo patrio, dell’onore, di libertà sempre più effimere e  intangibili. Eppure mai come quest’anno ci sarebbe tanto bisogno di  riflettere sui soffocanti e deleteri processi di militarizzazione della  società, dell’economia, della vita di milioni di italiani. Siamo in  guerra, una guerra fatta di morti invisibili, in Afghanistan, Iraq,  Pakistan, Libia, Somalia, Africa centrale, Filippine, Kurdistan, Yemen e  chissà ancora in quanti posti ancora. Una guerra che nelle periferie  delle megalopoli è fatta di disperazione, abbandono, emarginazione,  morte per fame e malattie. Una guerra alle risorse del pianeta, ai beni  comuni, alle migrazioni, all’ambiente. Guerre che vedono l’Italia  protagonista, complice, responsabile, vittima.     
I  numeri sono entità fredde, astratte, spersonalizzanti. Il loro uso può  assuefare, normalizzare, virtualizzare. Ma ci sono numeri che il 4  novembre ministri, generali e cappellani si guarderanno bene a  menzionare. Come ad esempio quelli forniti dal Comando Nato di Bruxelles  per quantificare le operazioni di morte realizzate in Libia. Dall’inizio di Unified Protector (31 marzo 2011) sino allo scorso 21 ottobre, ad esempio, sono state condotte 26.223 “sortite” di cui 9.634 Strike (quelle in cui c’è il cosiddetto ingaggio di obiettivi). Ovviamente ci si guarda bene a descrivere la tipologia degli obiettivi  di cui si sta parlando. In linea con le guerre globali e permanenti del  XXI secolo dove sono satelliti e computer a dirigere blitz e  bombardamenti e dove vige il diktat di occultare qualsiasi scenario di  distruzione in campo “avversario”, falchi e strateghi di Bruxelles si  guardano bene a fornire i dati sui morti e i feriti. Non esistono. Non  devono esistere. Ma quanti bambini, donne e uomini sono caduti sotto le  bombe dei 9.634 Strike degli aerei Nato? Il 4 novembre faremmo bene a fermarci un attimo e pensarci.
Anche  perché, sempre secondo la Nato, l’80% delle missioni aeree della  coalizione anti-Gheddafi sono state lanciate da basi italiane  (Decimomannu, Trapani-Birgi, Sigonella, Gioia del Colle, Aviano,  Amendola e Pantelleria, con l’apporto di altre infrastrutture Usa, Nato e  italiane come Camp Darby, Pisa, Napoli-Capodichino, Poggio Renatico,  Augusta, ecc.).
Il  4 novembre dovrebbero riscendere in piazza gli indignati che si  oppongono al modello globale neoliberista e al conseguente  smantellamento dello stato sociale. Sì, perché la guerra, anzi le guerre  del complesso militare-industriale nazionale, stanno dilapidando enormi  risorse finanziarie, dissanguando i bilanci dello Stato e annientando  le politiche di redistribuzione sociale. Per la Libia assistiamo a un  tragico balletto delle cifre di spesa. Solo  nei primi mesi di combattimento, l’intervento italiano è costato 500  milioni di euro, ma alcuni analisti affermano che si sia già  abbondantemente superato i 700 milioni. Del resto i costi operativi dei  singoli mezzi impiegati raggiungono valori allucinanti: tra i 30 e i  65.000 euro per ogni ora di volo dei cacciabombardieri; 11.500 euro per  un’ora di volo dei cargo C-130; 100.000 euro di carburante per ogni ora  di navigazione della portaerei “Garibaldi” e del cacciatorpediniere  “Andrea Doria”. Senza dimenticare che ogni missile o bomba lanciata  costa decine e decine di migliaia di euro: dieci strike, centinaia di miglia di euro; cento strike,  milioni. Operazioni doppiamente immorali, per il sacrificio delle  vittime in Libia, per i milioni di disoccupati o per le famiglie  precipitate al disotto della soglia di povertà nel nostro Paese. 
Senza  contare la guerra a Gheddafi, le missioni militari all’estero  costeranno a fine 2011 un miliardo e mezzo di euro. Un insostenibile  spreco di denaro imposto dai fabbricanti d’armi del complesso  Finmeccanica e dal colosso degli idrocarburi ENI, le due holding che con  il loro potere finanziario condizionano pesantemente le scelte di  politica industriale, estera e della difesa. Come insostenibile è il  livello raggiunto dalle spese militari: sempre nel 2011, il solo  bilancio del Ministero della difesa ammonta a 20.556.850.000 (venti  miliardi e mezzo) di euro, 192 milioni in più del bilancio 2010. E  questo mentre istruzione, università, sanità, ambiente, pensioni e  assistenza sociale hanno subito tagli draconiani. Vanno poi aggiunti i  circa 3 miliardi di euro provenienti dai bilanci di altri ministeri che  però hanno aperte finalità militari. Dai fondi del ministero per lo  Sviluppo economico si attinge per la ricerca e produzione dei nuovi  cacciabombardieri “Eurofighter”, delle unità navali classe “Fremm o per  contribuire a favore delle industrie militari e spaziali nazionali; 753  milioni di euro sono stati sottratti dai fondi del ministero  dell’Economia per prorogare gli interventi bellici in Afghanistan,  Libano e nei Balcani; una percentuale ormai altissima del budget del  MIUR, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca  viene destinata alla folle corsa spaziale e satellitare delle forze  armate.
Nei  deliri collettivi dei Signori delle guerre, l’Italia si trasforma  giorno dopo giorno in un’immensa portaerei di morte, dove si  moltiplicano basi, porti e infrastrutture militari, e dove sempre  maggiori porzioni di territorio vengono armate e militarizzate.  Festeggeremo il 4 novembre a Vicenza, splendida città del Palladio  convertita in alloggio-caserma per i parà Usa pronti all’uso in Africa e  Medio oriente; o in Sicilia, dove sta sorgendo uno dei quattro  terminali terrestri del nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari  della Marina militare statunitense, il MUOStro di Niscemi, bomba  ecologica che disperderà microonde cancerogene per un raggio di oltre  140 km. 
Lo festeggeremo a Sigonella, dove in 15 anni è stato speso un miliardo di dollari per trasformare lo scalo in un Hub,  movimentare uomini, armi e munizioni in mezzo mondo e ospitare i  famigerati Global Hawk, gli aerei senza pilota che disumanizzeranno  ulteriormente le future guerre planetarie. Festeggeremo il 4 novembre  nelle tante città di mare dove periodicamente approdano sottomarini e  unità navali a capacità nucleare, decine di reattori desueti con il loro  immane carico radioattivo. Lo festeggeremo infine con i corpi armati a  cui è stata affidata l’ultima delle guerre all’umanità, quella contro le  migrazioni e i migranti: la Guardia costiera, le Capitanerie di porto e  la Guardia di finanza, che accanto alla Marina militare,  all’Aeronautica, all’Esercito, all’Arma dei Carabinieri e alla Polizia,  presidiano i mari per impedire con ogni mezzo gli sbarchi di chi sogna  ancora di poter sfuggire ai conflitti, ai disastri sempre meno naturali,  alla fame e al sottosviluppo. Corpi militari  che  con i fondi “civili” europei acquistano sofisticati sistemi  d’intercettazione radar e da installare all’interno dei parchi e delle  riserve naturali del sud Italia e della Sardegna. Crimini che si sommano  ad altri crimini, ingiustizie ad ingiustizie, logiche di morte alla  morte. No, noi non festeggeremo il 4 novembre. Lo vivremo come un giorno  di dolore e di lutto. E mostreremo indignati tutta la nostra rabbia,  contro le guerre, le armi, i militarismi e le militarizzazioni.
Pubblicato in Telegrammi della nonviolenza in cammino, n. 721 del 27 ottobre 2011.
 
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